Troppi fotografi, troppi festival, troppi fotolibri

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Versione breve

Il titolo è volutamente sarcastico, come lo sono diverse parti del testo. Citazioni, luoghi comuni, analisi e pensieri sono accostati, senza troppe virgolette e formattazioni in corsivo. Quindi, in sintesi: sfruttare il “troppo” come stimolo e domanda critica, riflessiva e costruttiva. La selezione naturale farà il suo corso.
Allora, basta piangersi addosso!

Versione lunga

Avrei potuto scrivere di interessanti progetti fotografici legati da un filo conduttore, intervistare publishers e addetti ai lavori dell’editoria, raccontare le dinamiche o le motivazioni che hanno dato vita a Gazebook, tuttavia non so quanto di tutto ciò avrebbe contribuito costruttivamente alla causa del blog; ho preferito, piuttosto, esternare certe riflessioni sull’odierna problematica dei troppi fotografi, troppi fotolibri, troppi festival. È il ritornello, in loop, che annichilisce una valle di lacrime che – troppi, sì – continuano a piangersi addosso. È lo slogan cui – troppe, sì – persone ricorrono come giustificazione, sentenza fine a sé stessa, male indomabile della fotografia contemporanea.

Siamo usciti (spero), seppur lentamente, dall’eterno diverbio tra analogico e digitale, quest’ultimo primo dei mali che ci ha trasformato tutti – me per primo – in fotografi figli del digitale. È la breve, esponenziale, tragica storia del sensore digitale e del sensore digitale attraverso un giovane web, poi attraverso ‘sti maledetti smartphone, e i social media, e Instagram, e gli hashtag, ed un web sempre più maturo, seppur mal sfruttato. Il percorso del citizen journalist in tutto il suo dannato splendore. Ci siamo svegliati all’improvviso e ci siamo resi conto che il passante munito di iPhone si inserisce prepotentemente nell’ambito fotogiornalistico come lo zio che ti fa le foto al matrimonio e te le manda su Whatsapp la sera stessa al ricevimento.

Troppi fotografi, troppi festival. Grandi città e piccoli centri di provincia. Autori affermati e giovani emergenti. Poi le letture portfolio, i talk, i workshop. Uno ogni settimana, in ogni regione. Oh, non se né può più! Magicamente poi i troppi fotografi (e addetti ai lavori) diventano pochi e sempre gli stessi. Piuttosto che incuriosirsi delle persone nuove che si incontrano e di capire come un altro tipo di pubblico risponde a certi contenuti, ci si fossilizza sul fatto che ci siano sempre le stesse identiche persone. Quindi il mondo dei festival viene visto come un circolo autoreferenziale e dovrebbero esserci meno festival perché, a dir di molti, è un format ripetuto che è diventato una palla. Poco importa se invece i fotografi (quelli veri, non di troppo) seguono anch’essi, nei loro rispettivi generi, lo stesso format di epoche passate, senza essere considerati (né preoccuparsi di essere) un palloso format ripetuto. Lì sì che non si deve cambiare, al massimo si viene considerati “creative documentary photographer”. Tanto è tutta colpa degli iPhone e del maledetto citizen journalist, compreso lo zio della sposa.

In fondo, sarebbe interessante chiedersi chi ci obbliga ad andare, o perché non visitare meno festival o piuttosto prendersi dei mesi di pausa. Insomma, chiedersi che male effettivo fanno questi “troppi festival”, se invece decidiamo di percorrere nel frattempo altre strade. E quindi chiedersi quali siano le vere e sincere motivazioni alla base dell’organizzazione di un festival o della partecipazione a esso. Personalmente, credo che ogni rassegna abbia (o debba avere) la sua forza nel pubblico locale. È veramente emozionante e soddisfacente che tante – o anche poche – persone si mettano in viaggio per partecipare a un festival, ma trovo ancora più forza e senso di compiutezza nel vedere che gli abitanti, a chilometro zero, di una specifica località possano conoscere delle fette di mondo, idee, persone, che – per loro, sì – sono del tutto nuove. Per coloro che non sono abituati a partire in trasferta verso Arles, Gibellina, Foligno, Punta Secca, et cetera, per mangiare, bere e discutere di fotografia (forse), di festival ce n’è uno l’anno se va bene, altrimenti zero. Quindi, troppi dove? Sono proprio quelle persone il punto di rottura dell’autoreferenzialità, altro che diminuire i festival! C’è quello lì al governo degli Stati Uniti d’America anche perché i tanti dimenticati (in tutti i sensi, sondaggisti compresi) della provincia non sono stati più considerati né nutriti di ideali positivi e culturali, compresi quelli dell’arte. E noi addetti ai lavori – fotografi, editor, curatori, docenti, art director, publishers, operatori culturali – piuttosto che fermarci alla polemica sterile del troppo come causa dei mali, dovremmo forse ripartire dal troppo non come problematica, bensì come analisi sociale e visiva. Prenderne spunto e risorsa anche per farci, con obiettività, delle domande critiche e costruttive. Siamo addetti ai lavori, abbiamo la presunzione di raccontare il mondo e poi forse presumiamo che il mondo della fotografia sia la nostra timeline di Facebook. Perché è solo lì che i festival diventano troppi, altrimenti dire che i festival dovrebbero essere di meno, come rimedio all’autoreferenzialità, è il primo volto dell’autoreferenzialità stessa.

Tutti fotografano, tutti vanno ai festival. E adesso tutti portano il loro fotolibro. E non bastavano le grandi case editrici. Dopo il crowdfunding, il self-publishing, l’hand-made, l’on-demand, ecco dummy, funzine, newspaper, Blurb, casa editrice sì – ma piccola e indipendente, – collettivi che diventano case editrici sì – ma piccole e indipendenti. Insomma, anche qui non se ne può più. Non bastava l’inquinamento visivo delle troppe fotografie dei troppi fotografi che vanno ai troppi festival: adesso ce le rilegate pure!

Personalmente credo che realizzare un libro non sia automaticamente sinonimo di qualità o di prestigio, come non lo sono le foto di papà che voleva fotografare la luna più grande e luminosa degli ultimi settant’anni, confidando nel flash del suo iPhone. Adesso tutti possono, democraticamente, cantare, scrivere (e infatti persino io sto scrivendo), cucinare, fotografare… e creare un libro.

Finalmente lo zio della sposa può realizzare anche un fotolibro su Blurb con le foto scattate col cellulare. Poi, se sua moglie scopre i tutorial di rilegatura su Youtube, altro che stampa on-demand: vado al tabacchino e rilego facilmente tutto. “Eh, ma non è un libro, è solo una fanzine”. Solo-una- fanzine. Come se un progetto fotografico possa raggiungere la sua massima autorevolezza solo arrivando al fotolibro, quest’ultimo marchio di fabbrica delle grandi case editrici (che spesso continuano ad avere la puzza sotto il naso verso il self-publishing), le piccole case editrici e quelli lì della barchetta sulla Senna. Poco importa se nel frattempo i fotolibri delle grandi case editrici sono finalisti a prestigiosi concorsi con spudorati conflitti d’interesse in fase di selezione in giuria, in pieno stile Alemanno. Poco importa se intanto le grandi case editrici continuano a rispolverare autori, progetti, edizioni, con lo stile e i contenuti di decenni fa, spacciando tutto per una novità, in pieno stile Renzi. Poco importa se le grandi case editrici realizzano il fotolibro con i diecimila euro raccolti grazie al crowdfunding organizzato dal fotografo in prima persona, senza che loro ci mettano la faccia, in pieno stile Grillo. Tra Alemanno, Renzi e Grillo, il passo a quello lì – Donald Trump – non è così ampio. Che i fotolibri siano tantissimi è un fatto. Beh – ripartiamo da qui. Io ci vedo ancora uno spunto, una risorsa, per mettere in discussione il fotolibro stesso come unico, privilegiato, strumento di divulgazione del progetto. Prima di lamentarci dei troppi fotolibri, siamo sicuri che anche il nostro fotolibro non contribuisca all’inquinamento visivo? Siamo sicuri che il fotolibro sia l’unica forma di disseminazione possibile? Siamo sicuri che una fanzine è solo-una-fanzine? Posso ancora pubblicare quello che sarebbe stato pubblicato dieci, venti, trenta, anni fa? Posso ancora permettermi un oggetto che non ha nulla da invidiare al fotolibro on-demand fatto stampare dallo zio della sposa su Blurb?

Sarebbe bene rispondere, prima di accusare e lamentarsi. Sarebbe bene farsi delle domande, per andare oltre la polemica fine a sé stessa. Insomma, credo che tutti questi “troppi, troppi, troppi” siano sintomo di una non genuina sofferenza per una concorrenza dalla quale non si riesce a trarre stimoli costruttivi. Bisognerebbe aggiornarsi continuamente, stare sul pezzo e guardare fuori dal proprio orto, ma questo non lo si fa tagliando le gambe alla democraticità della fotografia. Quando parlo di stare sul pezzo, non è una questione di “moda da seguire”, quanto piuttosto capire in che periodo sociale – e soprattutto politico – viviamo e col quale ci rapportiamo in ambito fotografico, tramite il nostro lavoro.

Il “troppo” è solo statistico e la selezione naturale darwiniana farà il suo corso: l’asticella è sempre più alta e la frequenza di taglio continuamente determinata da quanto noi stessi vorremo e sapremo rapportarci con la società in cui viviamo.

* Alemanno: sindaco di Roma dal 2008 al 2013.
** Renzi: former ex Presidente del Consiglio italiano.
*** Grillo: comico e politico italiano.

About Simone Sapienza

Alternative TextSimone Sapienza (Catania, 1990) è un fotografo documentario recentemente laureatosi in Documentary Photography (First Class with Hons) presso la University of South Wales – Newport. Le sue fotografie sono state pubblicate su diversi periodici, tra cui The British Journal of Photography, Io Donna, New Republic, PDN, La Stampa, e altri. Ha ricevuto diversi riconoscimenti a livello nazionale ed internazionale, tra cui il primo posto al BJP Breakthrough 2016, il secondo posto al Premio Tabò nel 2015, le menzioni d'onore al Premio Pesaresi nel 2016 e Photographic Museum of Humanity nel 2015. È co-fondatore di Gazebook - Sicily Photobook Festival ed è oggi uno dei membri di Minimum a Palermo.
*image Humanae © Angelica Dass